L’animazione come intervento nel territorio

Settembre/ottobre 1975

L’animazione, svincolandosi dal suo legame restrittivo ed iniziale con il tetro, va assumendo sempre più concretamente i connotati di nuove forme di intervento nella colletticità.
La figura dell’animatore, assumendo sempre più chiaramente la funzione di stimolo per un cultura formativa, tende ad inserirsi in uno specifico spazio umano, come comunità di individui che, vivendo, manifesta la propria cultura.
Ciò che noi intendiamo – e pratichiamo – come animazione nasce da un’analisi/indagine sul/nel territorio, e dal rifiuto di seguire un prassi ristretta a spazi specifici (interventi limitati solo alla scuola o ai bambini).
Procediamo nel lavoro alternativo che si configura come conflitto/scontro con i ruoli tradizionali di istituzioni e/o persone nella scuola, nel teatro, nell’ambiente socio-politico-culturale, in genere.
Un lavoro organizzato di intervento sistematico nel territorio, coinvolgendo scuole, quartieri, strutture culturali, politiche e sociali.
La direzione in cui si muove questo lavoro/intervento d’animazione, va verso l’apertura di processi di crescita in senso sociale e culturale di tutta una comunità, così come dei singoli individui che la compongono.
Il nostro accento è posto sul FARE, e non sul “prodotto”; cioè sui rapporti continui e continuabili di un processo capace di scatenare un movimento là dove l’acqua degli stagni è ancora immobile.
L’animazione socio-culturale, se da una parte si pone in modo sperimentale per il suo bisogno immediato di essere verificata, per mostrare la sua validità e la sua natura; da un’altra si inserisce immediatamente nel territorio, per la sua stessa natura a decentralizzarsi, per la su composizione, per la sua finalità, cioè trova il suo terreno favorevole nella periferia, nei quartieri popolari, nelle aziende, nelle scuole e in ogni tipo di comunità sociale.
Diventa evidente come animazione e decentramento siano strettamente legati. Se l’animazione verifica di fatto un liberalizzazione della comunicazione, così come della forma della rappresentazione per la sua scelta intrinseca di un linguaggio non codificato, aperto, continuamente smontato e sviluppato in uno spazio nuovo che non è soltanto e semplicemente lo spazio fisico, ma etico-politico-linquistico, quei ” terreni non certo vergini, anzi profondamente sverginati dai mass-media, ma politicamente fecondi, ossia protesi verso una realtà di lotta e autogestione della lotta e della cultura” (Scabia)
Il decentramento dovrà porsi non come politica di “biglietteria” intelligente, cioè come modo di far intervenire al fatto culturale un pubblico più o meno tagliato fuori, bensì come modo di fare confluire nel fatto culturale, oggi centralizzato, una esperienza nuova, diversa e vivificante.
” Da una parte, il decentramento deve effettivamente saldare le varie zone della cultura cittadina, creare un ricambio organico di esperienze fra il centro e la periferia, rompere l’isolamento di questa ultima abbandonando quella concezione fondamentalmente aristocratica e paternalistica che trova espressione nella formula: se un certo pubblico non può o non vuole venire a teatro occorre portarglielo ovunque si trovi. In questa frase si rintraccia l’idea di un Teatro con la maiuscola (per certuni l’unico teatro “autorizzato”) che muove a colonizzare gli indifferenti e i “lontani” con il suo indiscutibile prestigio e catechismo: occorre invece interrogarsi senza ambiguità ed equivoci sulle ragioni per cui la periferia non vuole andare a teatro.( e, invece, poniamo, va alla partita) di che teatro sente il bisogno, se lo sente, se gli indifferenti siano davvero tali o se il loro rifiuto non derivi piuttosto dal fatto, dalla consapevolezza più o meno precis (ma è più precisa di quanto si creda) che quel teatro elaborato al di fuori delle loro necessità e dai temi che affrontano quotidianamente e spesso drammaticamente, non li riguarda o non li tocca in maniera estremamente marginale.” ( G. Boursier : Compiere un’inversione di tendenza)
Decentramento vuol dire allora concepire e affrontare il fatto culturale nella sua essenza, come momento comunitario di incontro/assemblea, come scrittura collettiva. Significa rifiutare la prassi paternalistica e/o populista della distribuzione di un prodotto culturale già confezionato.
Bisogna, invece, compiere un preciso salto di qualità, fornire i mezzi adeguati, creare strutture adeguate, autogestite direttamente dagli abitanti del quartiere, affinché sia il quartiere stesso ad inventarsi le proprie espressioni alternative.
Allora l’animazione diventa realmente una prospettiva culturale alternativa. Interviene come momento socializzante, favorisce la partecipazione, l’autonomia/creatività contro l’imposizione di un prodotto già finito, da accettare, da consumare.
L’obiettivo fondamentale dell’animazione è quello di trasformare il ricettore (la sua condizione di passività), in soggetto, in “attore”, capace non solo di modificare un’azione, m di intervenirvi direttamente nella sua fase di creazione.
In effetti l’animazione propone direttamente l’azione; “lo spettatore” non delega i suoi poteri ad un “personaggio” né perché questi pensi né perché agisca al suo posto; al contrario assume il ruolo di “protagonista”, crea direttamente, cerca soluzioni, si prepara all’azione reale.
Il fine verso cui si muove è la crescita in senso sociale e culturale, di tutti coloro che sono coinvolto; la loro apertura verso gli aspetti (sotto ottiche diverse) della vita del singolo e della collettività, la tensione critica per i fatti sociali, politici, culturali, artistici dell’ambiente sia esso quartiere, città o paese.